Psicoterapia famigliare

Tutte le relazioni sono uniche

Sappiamo, per esperienza diretta, che tutte le relazioni hanno una loro unicità. Nessun genitore ammette volentieri questa realtà ma, cionondimeno, è palese quanto la relazione tra un figlio e un altro risenta di questa unicità. Così come è palese quanto possiamo essere felici con alcune persone e quanto soffriamo la presenza di altre.

Anche con i pazienti realizziamo questa realtà e, anzi, potremmo dire che quanto più siamo in grado di avere relazioni uniche con i pazienti, tanto più la nostra capacità di costruire una buona alleanza di lavoro diventa solida.

Ma attraverso quale processo le relazioni diventano uniche?

Tante risposte

Ovviamente le risposte a questa domanda sono moltissime. Tutte però tentano, paradossalmente, di spiegare l’unicità della relazione, attraverso delle strutture ordinate. Ci parlano di copioni, strutture rette da regole, forme canoniche, intrecci e schemi. Un pò troppo rigide per spiegare l’unicità di una relazione.

In effetti l’unicità di una relazione richiede di passare da una logica individuale ad una logica di relazione. Non possiamo spiegare una relazione attraverso la struttura di una persona. E’ necessario che ci apriamo a considerare la struttura della relazione e come, quelle due persone uniche, interagiscono all’interno di questo movimento relazionale.

La relazione diventa così un altro personaggio con delle caratteristiche proprie che ne definiscono carattere, qualità emotiva, qualità degli scambi sociali e i cui elementi sono modulati da entrambi i membri della relazione. Un pò come quando si fa scuola guida. Uno dei due è al volante ma l’istruttore ha accesso ai comandi principali e, se qualcosa non funziona, interviene in modo da correggere l’andatura della macchina.

Il terzo personaggio: la relazione

Questo “terzo personaggio” nasce dalla qualità degli affetti relazionali che i partner mettono nella relazione. Affetti come il sentirsi distanti, il sentirsi in sintonia, la sensazione di essere conosciuti e compresi accompagnati da una intenzione come “rimanimi vicino“, “stacca il contatto“, “resta collegato anche se ti allontani“. Questi affetti relazionali – che non sono i sentimenti che proviamo verso una persona ma proprio come moduliamo la relazione – si esprimono attraverso il corpo e raramente prendono una forma verbale. Spesso i conflitti relazionali nascono sulla base di queste intenzioni paraverbali e sulla base degli affetti relazionali che vengono intuiti ma non espressi. E’ sulla base di questi movimenti relazionali, sempre presenti e spesso solo vagamente intuiti, che cerchiamo di aggiustare il nostro comportamento.

Quando gli affetti relazionali e le intenzioni sono coordinate la relazione cresce e crescono anche i singoli individui di quella relazione. La possibilità di questa crescita va a costruire il piacere della relazione e la forza del legame. Anche nella relazione tra due partner adulti, il vero piacere che tiene insieme la relazione non è solo il piacere del legame sessuale ma soprattutto questo tipo di piacere relazionale:quello che Lowen chiama il piacere di sentirsi vivi, di sentire cioè che stiamo crescendo insieme. Questo piacere è quello che Tronick chiama espansione diadica dello stato di coscienza. In entrambi i casi è il senso interno della crescita, dell’apertura, dello svolgersi e fiorire delle nostre parti interne.

Molte relazioni prospere di piacere sessuale falliscono proprio perché manca questa qualità di piacere relazionale che testimonia lo stato di salute di una relazione.

Il piacere di crescere

A qualunque età e in qualunque condizione il piacere di essere vivi è strettamente legato al piacere di sentire che la nostra crescita e il nostro cambiamento trovano uno spazio relazionale, trovano relazioni in cui avvenire. Questo piacere, che di nuovo è un felt sense e non qualcosa di cui parliamo, è necessario per sentirsi vivi, è necessario per nutrire una speranza corporea nella nostra vita. E’ necessario per non essere sopraffatti dalla noia o dal vuoto esistenziale, ed è strettamente legato alla nostra possibilità di esistere in relazioni significative. Produce effetti dinamici anche personali ed espande lo stato di coscienza.

Sul piano personale si accompagna alla sensazione di “essere più grandi” e di “essere in compagnia“. Parole nuove non ancora sufficientemente usate nella relazione terapeutica, parole che nascono dalla comunicazione della propria esperienza e da quel silenzio che sperimentiamo quando incontriamo davvero noi stessi. Un silenzio fertile e produttivo.

Co-creare

Se la relazione è una sorta di “terzo personaggio” creato insieme, è ovvio che ogni relazione avrà caratteristiche uniche perché ogni persona fa emergere tratti diversi della nostra esperienza di noi e del mondo. Co-creare è una parola diversa da costruire insieme. Costruire presuppone che ci sia un “prodotto finito” e una serie definita di passi per arrivare a quel risultato. Co-creare è connesso alla relazione momento per momento e rispetta l’imprevedibilità della relazione; una imprevedibilità a cui dobbiamo abituarci se vogliamo evitare di cadere in una visione relazionale idealistica. “Il piacere è la percezione di essere pienamente vivi nel qui e ora” (Lowen) e quindi è meno finalizzato alla costruzione di qualcosa di statico e più aperto alla creatività.

La relazione e il tempo

La relazione quindi, per crescere, ha bisogno di essere espressa nel presente e nel momento per momento. Entrare in maniera troppo diretta verso un processo finalizzato ad un risultato preciso, rischia di soffocarla. E’ vero però che l’unicità di una relazione, si struttura man mano che passa il tempo e man mano che aumenta e si diversifica il grado di intimità di quel rapporto. Più la relazione è unica, più è fatta di particolari che troviamo solo in quel rapporto, più è personificata con quella particolare persona e sempre meno trasferibile con altri l’esperienza che ne abbiamo. Inoltre i difetti della relazione assumono, con il tempo, un ruolo sempre più interessante.

Se pensiamo alla relazione come qualcosa di definito e che deve ottenere un risultato preciso, i difetti sono un problema da correggere e spesso sono un conflitto da sistemare. Se pensiamo alla relazione come atto creativo, i cosiddetti “difetti” sono il materiale affettivo e interattivo attorno al quale far prendere una direzione alla relazione. Ci permettono di comprendere quale direzione sta prendendo la nostra relazione e quanto questa direzione è condivisa e condivisibile. Non esiste quindi una forma perfetta di relazione o tendente alla perfezione, né sarebbe auspicabile, perché vorrebbe dire che entreremmo in un universo statico e monotono, con un significato ben lontano dal piacere di essere vivi e dal piacere della creatività.

Relazione a due o gruppo?

Nello specifico della relazione terapeutica, il bisogno di una relazione unica spesso si traduce nel desiderio di un “rapporto individuale”. Già l’uso di questo termine per definire la relazione terapeutica dovrebbe fare riflettere. Com’è possibile che un rapporto sia individuale? Non è forse un fallimento pensare ad un rapporto come qualcosa di individuale? Questa richiesta nasconde una ansia profondissima: l’ansia di non venir conosciuti e compresi in un gruppo. L’ansia di non poter avere quella qualità di relazione unica che sappiamo ci aiuta a crescere. Il punto è che è la capacità di stabilire una relazione unica che aiuta la crescita e non tanto il fatto che quella relazione sia individuale. Confondere unico con individuale nasce dal desiderio di “sentirsi speciali” , un desiderio di esclusività che non ci aiuta a realizzare chi siamo davvero ma che ci lascia continuamente in balia dell’approvazione di una singola persona. Quella che in quel momento desideriamo.

La psicologia individuale è, fin dall’inizio, psicologia sociale.

Sigmund Freud